Regio V - Picenum
  Regio V: Storia e territorio
 

 

                         ORIGINE E AREA DI DIFFUSIONE DEI PICENI 
                                                        di Alberto Calvelli


 

   Le scoperte archeologiche degli ultimi decenni hanno prodotto un quadro abbastanza chiaro delle culture e dei popoli che hanno occupato il versante adriatico dall'inizio dell'età del Ferro fino alla conquista romana. Dall'estremità della Puglia fino al confine tra Marche ed Emilia-Romagna l'intera fascia costiera era occupata da due principali gruppi etnici: quello iapigio, dal capo di S.M. di Leuca al Gargano, e quello sabellico, dal fiume Fortore a Pesaro. Queste due entità, distinte dal punto di vista linguistico, etnico e culturale erano formate a loro volta da raggruppamenti minori. Procedendo da sud verso nord, degli Iapigi facevano parte i Messapi, i Peucezi e i Dauni; il gruppo sabellico era invece formato da Frentani, Marrucini, Vestini, Pretuzi e Piceni: questi ultimi costituivano l'entità culturale più consistente e definita del gruppo sabellico.


         

          Fig.1 Popoli e gruppi etnici in Italia nell'età del Ferro.

   Tuttavia, l'idea di una omogeneità etnografica, culturale e politica del Piceno non sembrerebbe corrispondere alla reale situazione d'età protostorica, come dimostrerebbero le fonti antiche. Inoltre non c'è concordanza nella tradizione letteraria per quanto riguarda l'etnonimo dei Piceni e la denominazione regionale del territorio da loro occupato. Sia le fonti greche che romane - tra l'altro piuttosto scarse e in gran parte tarde - riportano infatti una vasta gamma di denominazioni e la presenza di variegati gruppi etnici. 

   La più antica fonte greca che attesta il nome di "Picenti" è Polibio (Polyb. II 21, 7). L'autore ricorda che nel "232 a.C. sotto il consolato di Marco Lepido, i Romani colonizzarono nella Gallia Cisalpina la zona detta picentina dalla quale cacciarono, dopo averli vinti, i Galli Senoni". In un altro brano (III, 86, 9) lo stesso autore, a proposito dei movimenti di Annibale dopo la battaglia del Trasimeno, ricorda che il condottiero cartaginese "dopo aver attraversato il territorio degli Umbri e dei Picenti giunse in dieci giorni presso il litorale adriatico". 

   Plutarco di Cheronea chiama il Piceno con un nome che non compare in nessuna altra fonte, "Picenide", e identifica i suoi abitanti come "Piceni". Claudio Tolomeo (III, 1, 7 - III, 1, 18), a proposito delle città costiere dell'Adriatico, utilizza l'etnico "Piceni" per indicare le genti che vivono accanto ai Peligni e Marrucini, mentre usa il termine "Picentini" per le popolazioni che si trovano nei dintorni di Salerno. Della presenza dei "Picenti" nella zona tirrenica accenna anche Strabone (Geografia, V, 4,13); Appiano (Samn., 6,3) riferisce che le legioni romane, con a capo il console P. Cornelio Dolabella, attaccarono nel 283 a.C. i Galli Senoni passando attraverso i territori dei Sabini e dei "Picentini". Cherabosco, grammatico del IV sec. d.C., e Stefano di Bisanzio, lessicografo del V sec. d.C., chiamano "Picianti" gli abitanti del Piceno. In Agatia, storico del VI sec. d.C. si trova il toponimo "Piceno", mentre Suida, lessicografo del X sec. d.C., riporta l'etnico "Piceni".

   Il documento più antico tra le fonti latine, successive alla conquista romana del Piceno nel 268 a.C., è costituito dalla citazione nei Fasti Triumphales Capitolini della vittoria nel 268 a.C. di P. Sempronio e A. Claudio sui "Peicenti" (Peicentibus). La legge del tribuno G. Flaminio del 232 a.C. prevedeva la colonizzazione dei territori dell'Italia centrale adriatica "al di qua di Ariminum e ultra agrum Picentium" (Catone ex Varrone I, 2, 7) mentre Tito Livio (Liv. X, 10-11) parlando degli avvenimenti del 299 a.C. ricorda che i Romani strinsero un patto di alleanza cum Picenti populo.

   La storiografia non ricorda soltanto la presenza nelle attuali Marche dei Picenti/Piceni, ma anche degli Asili (Silio Italico, VIII, 439-445), stanziati nei pressi di Jesi o nella valle dell'Aso, dei Tirreni, fondatori nell'odierna Cupramarittima del santuario dedicato alla dea Cupra (Strabone, V,4,2), e dei Valesi (Esichio). Nel Piceno era anche nota la presenza dei Liburni, dei quali Truentum secondo Plinio sarebbe stato l'unico insediamento superstite, e dei Siculi, fondatori di Ancona e di Numana, scacciati secondo Filisto da Umbri e Pelasgi. Nella zona di Novilara, a sud di Pesaro, era stanziato un gruppo etnico di ignoto nome che ci ha lasciato quattro steli non assegnabili a nessuna delle lingue attestate in questo parte dell'Italia né in quelle vicine (le cosiddette iscrizione "nordpicene"). Nell'area compresa tra le attuali province di Ascoli e di Teramo Plinio colloca la stirpe dei Pretuzi: Helvinum, quo finitur Praetutiana regio et Picentium incipit (Nat. Hist., III 18, 110).  Ancora, nel territorio di Fermo sono stati rinvenuti insediamenti e necropoli villanoviani. Infine, in piena età storica è attestata la presenza dei Galli Senoni nelle Marche settentrionali. Nonostante la presenza di numerosi gruppi etnici, alcuni senz'altro leggendari, è indubbio che il popolo dei Piceni rappresenti comunque la maggiore e più significativa entità culturale stanziata nell'area marchigiana nel primo millennio a.C.

   Sui limiti geografici del territorio occupato dai Piceni non c'è unanime accordo fra gli studiosi: ad eccezione del limite settentrionale collocato generalmente lungo il corso del fiume Foglia e quello occidentale segnato dalla catena appenninica, le maggiori differenze riguardano il limite meridionale, fissato presso il fiume Chienti o il Tronto, oppure in Abruzzo presso il Vomano, o il Tordino o il Pescara ed anche nei pressi di Alfadena.

   Le fonti antiche estendono sino in territorio abruzzese l'area occupata dai Piceni. Plinio infatti colloca il confine meridionale della Regio V Picenum sul fiume Aternus, l'attuale Pescara (Nat. Hist., III 18, 110-112). Strabone sostiene che la lunghezza totale del territorio occupato dai "Picentini", dal fiume Aesis (Esino) a Castrum Novum (Giulianova), risulta essere di 800 stadi (Geografia, 5.4.2). In un passo successivo però lo stesso Strabone fissa il confine meridionale presso l'Aternus.

   La documentazione archeologica, tuttavia, dimostra che il territorio occupato dai Piceni non corrisponde a quello che ci viene tramandato dalle fonti antiche e fissato dalla suddivisione amministrativa augustea.  Basti ricordare gli insediamenti e le necropoli picene scoperti a Matelica, Camerino e Fabriano, centri amministrativi della Regio VI Umbria

   Già dalla tarda età del Bronzo il corso del Tronto costituiva un confine culturale, come si evince dalle diverse caratteristiche della cultura materiale fra le Marche e l'Abruzzo.

   Una differenziazione che continua anche nelle fasi successive: il territorio delle Marche è legato all'Etruria dalla presenza delle necropoli a incinerazione di Pianello di Genga (fasi finali dell'età del Bronzo) e di Fermo (prima età del Ferro). Nei secoli successivi l'area marchigiana partecipa agli scambi e ai collegamenti che legano l'Etruria tirrenica e padana alla penisola balcanica, alla Grecia e all'Europa transalpina; nello stesso periodo invece l'Abruzzo gravita attorno all'area appenninica estesa fino alla Sabina e al Molise.

   L'origine sabina dei Piceni è invece riconosciuta in modo concorde dalla storiografia antica. Orti sunt a Sabinis voto vere sacro: così Plinio (Nat. Hist., III 18, 110) definisce l'origine dei Piceni in seguito al "voto di una primavera sacra". Le notizie fornite da Plinio sull'origine dei Piceni trovano conferma anche in Strabone (Geografia, 5. 3. I), pur senza un chiaro riferimento al ver sacrum: "I Sabini sono un popolo antichissimo e autoctono; sono loro coloni i Picentini e i Sanniti, di cui sono coloni i Lucani, dei quali sono, a loro volta, coloni i Brettii". E in un altro passo: "Oltre le città degli Umbri, tra Rimini e Ancona, si estende la zona picentina. I Picentini sono emigrati dalla Sabina sotto la guida di un picchio che avrebbe mostrato la strada ai primi capi; da questo fatto essi derivano il nome, in quanto chiamano questo uccello, che per loro è sacro a Marte, picus (Geografia, 5.4.2).
   La tradizione di Plinio e Strabone, a proposito dell'origine sabina dei Piceni, viene confermata anche dall'opera di M. Verrio Flacco, del I secolo d.C., la cui epitome, curata da S. Pompeo Festo nel II o III secolo d.C., venne compendiata nell'VIII secolo d.C. da Paolo Diacono: "La regione picena, nella quale è compresa Ascoli, viene così chiamata perché, quando i Sabini partirono verso Ascoli, sul loro vessillo era un picchio" (Paul. Fest., p. 235 Lindsay, s.v. Picena regio). Un esplicito riferimento al ver sacrum si trova anche in uno scolio alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia: "La regione picena, dove è compresa Ascoli, viene così chiamata dai Sabini perché, quando i nati nella primavera sacra partirono verso Ascoli, sul loro vessillo era un picchio" (Glossaria Latina, vol. IV, p. 320 Lindsay, s.v. Picena regio). 


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                                           LA PRIMA ETA' DEL FERRO
                                                       
di Alberto Calvelli


   La facies archeologica che convenzionalmente viene indicata come "civiltà picena" inizia a configurarsi nelle Marche durante la prima età del Ferro, intorno al IX sec. a.C. Secondo lo schema proposto da Delia Lollini, al IX e all'VIII sec. a.C. corrispondono rispettivamente le fasi Piceno I e Piceno II che si possono considerare come l'epoca di formazione e di consolidamento della civiltà picena prima della trasformazione culturale avvenuta con il periodo orientalizzante (Piceno III).

   Quasi tutte le tombe di questo primo periodo sembrano infatti ricondursi al Piceno II, mentre scarse sono le testimonianze che rientrano con certezza alla fase iniziale. Un fenomeno simile si osserva anche nella necropoli di Colfiorito (posto in territorio umbro ma pertinente alla facies archeologica picena) che annovera 250 tombe datate tra il IX e il III sec. a.C.; qui le tombe attribuibili al Piceno I e II sono rispettivamente 10 e 24, le prime ripartite in gruppetti piuttosto distanti fra loro e composte da poche unità secondo uno schema comune anche alle necropoli di Ancona e Numana. Tale situazione rispecchia quella che si osserva nei contesti coevi della fase antica della prima età del Ferro dell'Italia settentrionale e medioadriatica caratterizzati da una scarsa documentazione dovuta principalmente a una crisi demografica.

   Al Piceno I vengono attribuite una serie di tombe a incinerazione rinvenute ad Ancona, Numana e Matelica. In quest'ultima località la tomba n. 14 della necropoli di Brecce ha restituito un'olla biconica a corpo globulare schiacciato ad anse insellate, deposta all'interno di un pozzetto, contenente le ossa combuste del defunto.

   Fatta eccezione per questo tipo di sepolture il rito funerario del Piceno I è quello dell'inumazione con scheletro rannicchiato sul fianco destro. I corredi funerari, a volte rappresentati anche da un unico elemento e prive di vasellame fittili, sono composti da spilloni, fibule, rasoi, pendagli ed altri oggetti di bronzo di uso personale che spesso trovano confronti in contesti villanoviani, transadriatici o di più ampia diffusione.

   La totale assenza di vasi di corredo nelle tombe a inumazione ha finora impedito di identificare una varietà sufficiente di forme ceramiche caratteristiche e di distinguere con certezza quali abitati appartengano alla prima o alla seconda fase. In alcuni insediamenti è stata inoltre appurata una continuità di occupazione tra il Bronzo finale e la prima età del Ferro. E' il caso di Casale Superiore, nella valle del Tronto, dove in superficie sono stati rinvenuti abbondanti frammenti ceramici e una fibula che permette di datare la struttura a prima del IX sec. a.C., ma soprattutto di Pollenza e del Colle dei Cappuccini di Ancona.

   Nel Piceno II i sepolcreti si caratterizzano per una maggiore concentrazione e densità e si collocano, quando è stato possibile collegarli ad un abitato, all'inizio dei principali percorsi di uscita da essi. In questa fase si assiste anche all'aumento del numero dei centri e ad una più capillare distribuzione di essi su tutto il territorio regionale, soprattutto nei distretti che assumeranno particolare importanza nella fase matura della civiltà picena: area cuprense, basso Tronto, medie valli del Tenna, Chienti, Potenza ed Esino. 

   Le sepolture di VIII secolo sono contraddistinte da modalità di deposizione e rituali del tutto simili a quelli adottati nella fase precedente. In alcune tombe sono stati rinvenuti dei corredi piuttosto significativi che indicano l'insorgere di personaggi di particolare rilevanza nella società picena, un fenomeno questo che troverà la sua massima espressione nel corso del VII secolo.

   Dal punto di vista insediativo l'VIII secolo presenta i caratteri di un notevole sviluppo: la linea di costa viene tutta occupata da nord a sud e si assiste ad una forte concentrazione intorno alle medie vallate del Potenza e del Chienti, all'interno della regione ai confini con l'Umbria dove sono in fase di sviluppo i centri posti lungo l'asse di collegamento con l'area interna tiberina (Matelica, Pievetorina), nell'entroterra fermano e nella vallata del Tronto. Gli abitati occupano generalmente posizioni naturalmente forti la cui dislocazione è spesso indicata dalla presenza di sepolcreti che li circonda piuttosto che da ritrovamenti di evidenze vere e proprie.

   Le strutture abitative erano costituite da capanne lignee intonacate, di cui, nella maggior parte dei casi, non si conserva il piano di calpestio, ma soltanto la parte basale (spesso si tratta di appena alcune decine di centimetri) delle buche dei pali lignei, all'interno delle quali è talvolta  visibile il foro di alloggiamento del palo stesso distinguibile grazie al colore più scuro della terra, dovuto ai resti di legno carbonizzato.

   Le capanne delle prime fasi dell'età del Ferro hanno forma rettangolare con uno dei lati corti absidato e l'ingresso, nel lato corto opposto, orientato di solito verso sud/sud-est, a riparo dalle correnti più fredde; uno o più pali centrali (di dimensioni maggiori rispetto a quelle perimetrali) avevano la funzione di sostenere e sorreggere il tetto (probabilmente a due spioventi).

               
               Fig.2 Planimetria di capanna absidata rinvenuta a Matelica in località
               Crocefisso. VIII secolo a.C.


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                                                  ORIENTALIZZANTE
                                                        di Alberto Calvelli


 

   Nel corso dell'VIII sec. a.C. vennero stretti numerosi legami fra alcune regioni della penisola, in particolare quelle della fascia costiera medio-tirrenica, e l'area del Mediterraneo orientale. Le evidenze archeologiche documentano la formazione di un "ceto aristocratico" che emerge grazie alla grande capacità di accumulazione e di acquisto.

   La dislocazione di numerosi abitati in posizione strategicamente favorevole lascia supporre che tra le fonti di approvvigionamento della ricchezza figurasse anche il ricorso a forme di prelievo, intese come pedaggi per il transito lungo itinerari sottoposti a controllo.

   Gli esponenti di questo nuovo ceto, designati come "principi-guerrieri", sono noti soprattutto attraverso la documentazione funeraria. La ricchezza e lo sfarzo, ben evidenti nei corredi funerari, attestano che le eccedenze delle risorse venivano investite nell'acquisizione di beni di prestigio allo scopo di imitare lo stile di vita proprio delle corti orientali basato sul lusso e sull'ostentazione (tryphe e habrosyne).

   In area picena il processo di acculturazione si realizza principalmente attraverso la mediazione dell'Etruria, senza escludere la possibilità di altri apporti, in particolare via mare, provenienti direttamente dall'alto Adriatico e dal Mediterraneo orientale. La circolazione e l'importazione di oggetti esotici e il probabile arrivo in area picena di artigiani greci ed etruschi hanno portato alla formazione di un artigianato locale che, pur ispirandosi a modelli stranieri, è capace di elaborare prodotti originali. 

   La suddivisione in classi di una società basata sulla ripartizione dei mezzi di produzione, e che ha nel pater familias il referente politico, si evince anche dalla presenza nei corredi funerari di oggetti rituali che, evidenziando sempre più un'evidente distinzione di immagine e diversificazione di funzioni, esaltano progressivamente l'ideologia guerriera. Alcune necropoli (Incrocca e Crocefisso a Matelica e Novilara) rivelano inoltre una pianificazione dello spazio cimiteriale che presuppone l'esistenza di un potere con funzione di programmazione che può derivare esclusivamente da una forte coesione politica della comunità.

   Le trasformazioni socio-economiche derivate dalla concentrazione del potere politico ed economico nelle mani di un ristretto ceto magnatizio hanno probabilmente comportato l'abbandono dei centri più piccoli e l'accentramento della popolazione nelle comunità maggiori o in realtà di nuova fondazione, centri del potere politico e del controllo del territorio.

   I caratteri dell'Orientalizzante piceno, che nella suddivisione proposta da Delia Lollini corrisponde alla fase Piceno III, sono ben documentati in numerose necropoli. Le tombe, ad inumazione generalmente distesa, sono racchiuse entro circoli di pietre o fossati anulari coperti da tumulo di terra.

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                               ETA' ARCAICA E TARDO-ARCAICA
                                                    di Alberto Calvelli

   
   Nel corso del VI sec. a.C. avvengono dei profondi cambiamenti di ordine politico e commerciale nell'Italia centrale dovuti essenzialmente al crescente interesse che alcune città dell'Etruria centro-settentrionale ebbero verso le regioni adriatiche, come dimostrano il potenziamento di centri già esistenti (es. Felsina) e la fondazione di nuovi (Spina e Adria).
   La prosperità economica raggiunta in questa fase dalle comunità picene è evidenziata dai numerosi e pregevoli oggetti d'importazione deposti nei corredi funerari e dalla presenza di oggetti dell'artigianato piceno in contesti dell'Italia centrale, meridionale e nella Penisola Balcanica. 
   La società picena di età arcaica era strutturata secondo un sistema oligarchico in cui anche la donna, come presso gli Etruschi e altre comunità dell'Italia meridionale, svolgeva una funzione sociale di grande importanza, come garante della continuità gentilizia e strumento principale di alleanze e rapporti tra gruppi aristocratici in virtù dello scambio matrimoniale. L'alto rango di alcuni personaggi è dimostrato dalla presenza, nei corredi funerari di fine VII e di VI sec. a.C., di prestigiosi simboli come il carro, mentre gli ornamenti personali raggiungono livelli di notevole consistenza sia quantitativamente che qualitativamente.
   Nella suddivisione proposta da Delia Lollini il periodo considerato corrisponde alle fasi Piceno IV A, IV B e V (VI sec. a.C. - fine V sec. a.C.) caratterizzate da un rito funebre con deposizione dell'inumato in posizione prevalentemente distesa e per la diffusione, a partire dal Piceno IV B, della ceramica attica a figure nere e rosse.
   Dal VI sec. a.C. alle primitive capanne lignee si sostituiscono strutture che prevedono l'utilizzo di tegole per le coperture e di ciottoli, pietre e laterizi per muretti a secco con alzato in graticcio che dovevano di certo garantire una maggiore solidità alle abitazioni .
   In rari casi si è conservato il battuto pavimentale (altrimenti danneggiato dall'usura del tempo e dai lavori agricoli) che poteva essere costituito da uno strato di ghiaia compatta, di terra battuta o di argilla compattata dall'azione del fuoco.
   Negli abitati piceni, accanto alle capanne e alle strutture accessorie, sono visibili non di rado tracce di canalette, alcune volte non in connessione con le buche di palo, altre volte invece strettamente collegate ad esse, e comunque coeve (nel riempimento sono stati recuperati gli stessi materiali presenti nelle buche di palo).

          
           Fig.3 Ricostruzione di capanna protostorica rinvenuta a Pesaro. Fine VI - inizi 
           IV secolo a.C.


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Approfondimento: le necropoli picene di Montedinove e Rotella

   Delle necropoli picene di Rotella e Montedinove, situate nell'alto corso del Tesino, rimangono solo scarne notizie. Entrambe in passato sono state poste in relazione ai resti di un insediamento, individuato e scavato dalla Soprintendenza Archeologica delle Marche nell'anno 1979-80. Sia il materiale proveniente dall'abitato sia quello rinvenuto nella necropoli di Rotella sono databili tra il VII e il V sec. a.C. Tra il materiale rinvenuto nelle sepolture si segnalano in particolare un pendaglio composto da un dente di cinghiale legato con filo di bronzo, una spada con elsa a cinque stami in ferro, una kylix attica a figure nere, un vasetto situliforme in bronzo, un'armilla, una situla in bronzo, un colino, una fibula del tipo Montedinove, una fibula in bronzo a navicella con arco decorato ad incisione, una fibula con corpo in ambra, due punte di lancia in ferro, un pettorale a piastrina traforata con un fregio animalistico e munita di sette pendenti composti da asticelle tortili e conchiglie, ed una cintura. In base al materiale rinvenuto le deposizioni sono per lo più databili al Piceno IV A e Piceno IV B (VI sec. a.C.), mentre in un solo caso la datazione riporterebbe ad una fase più antica, a cavallo tra il Piceno II e il Piceno III.
   In un'area poco distante alla necropoli di Rotella, è stata identificata in posizione simmetrica rispetto ai resti dell'abitato, la necropoli di Montedinove.




                  IL IV SECOLO A.C. - CRISI DELLA CIVILTA' PICENA

                                                       di Alberto Calvelli

 

   Già a partire dalla fine del V sec. a.C. è possibile cogliere i primi segni di trasformazione culturale e di crisi della civiltà picena che si accentueranno nel corso del IV sec. a.C. in seguito ad una serie di eventi storici di notevole portata.

   Fin dagli ultimi decenni del V sec. a.C. avvengono dei cambiamenti nelle comunità picene in cui il potere e la ricchezza non sono più prerogativa dell'aristocrazia guerriera; un nuovo ceto, che controlla i traffici e gli scambi commerciali, assume sempre maggiore peso all'interno della società picena adeguandosi alla nuova realtà socio-economica e modificando anche i propri costumi.

   Alle conseguenze dovute a questi processi evolutivi interni si aggiungono quelle di maggiore peso e di natura esterna causate dall'arrivo di comunità allogene di differente cultura, i Siracusani ad Ancona e i Galli Senoni nelle Marche centro-settentrionali.

   Le invasioni celtiche, la presenza siracusana e la conquista romana porteranno nel volgere di meno di due secoli alla totale scomparsa della cultura picena. L'ultima fase della civiltà picena, dai primi decenni del IV sec. a.C. fino alla metà circa del III sec. a.C., nella suddivisione proposta da Delia Lollini corrisponde al Piceno VI.

   Agli inizi del IV sec. a.C. gruppi di Senoni occuparono la parte settentrionale delle Marche, un'area scarsamente popolata fin dal V sec. a.C. ma di notevole interesse strategico. L'area in questione infatti permetteva di combinare i contatti marittimi con le regioni interne dell'Appennino, lungo la vallata del Tevere; inoltre, direttrici interne e costiere la mettevano in contatto con la Puglia e la Campania. Queste possibilità furono sfruttate anche per compiere numerose azioni militari; le fonti ricordano che nel 390 a.C. un nucleo di Senoni riuscì a saccheggiare e occupare per vari mesi la stessa Roma. 

   Secondo Tito Livio la tribù dei Senoni, gli "ultimi arrivati", occuparono il territorio compreso fra il fiume Utens (Uso o Montone) a nord e il fiume Aesis (Esino) a sud. Dall'esame delle caratteristiche del territorio si è osservato che per i Senoni dovette risultare più agevole l'occupazione della fascia costiera e dell'entroterra; le comunità indigene (umbre e, a sud dell'Esino, picene) presumibilmente si arroccarono nelle aree appenniniche. La scoperta di testimonianze celtiche a sud dell'Esino, fin nelle Marche meridionali e oltre (sepolture celtiche sono state individuate anche a Campovalano, in Abruzzo), dimostra che il confine meridionale indicato da Livio non dovette essere così vincolante.

   La colonia siracusana di Ancona, che probabilmente costituì il potenziamento di un centro greco già esistente, rappresentò uno dei principali mercati di mercenari gallici della penisola. Una conferma degli stretti rapporti che i Senoni ebbero con i Siracusani di Ancona e con l'area del Conero (Numana e Camerano) è rappresentata dai ritrovamenti in questi centri di spade e foderi lateniani in ferro e di altri oggetti che rimandano chiaramente all'ambiente celtico.

   Il rito funerario dei Senoni è l'inumazione in posizione supina, con la faccia orientata verso ovest, in una fossa di forma quadrangolare di dimensioni superiori a quelle del corpo, così da riservare uno spazio per il corredo e le offerte. Alcune sepolture si distinguono anche per la dimensione ancora maggiore della fossa che diventa una vera e propria camera funeraria, spesso protetta da uno strato di pietre probabilmente sostenute da un tavolato. La salma sembra fosse deposta all'interno di un cassone ligneo di cui restano soltanto i chiodi di ferro.

   Le necropoli senoniche si caratterizzano per la massiccia presenza delle tombe di armati (in quella di Montefortino di Arcevia rappresentano circa la metà del totale) e per l'alta frequenza degli elmi (a Montefortino di Arcevia e in altre tombe della regione sono deposti in quasi due terzi delle sepolture dei guerrieri). La presenza di armi difensive e offensive riflette in maniera inequivocabile una società nelle quali le armi svolgevano un ruolo di primo piano.

   Dal confronto tra le ricche sepolture senoniche e quelle coeve picene della seconda metà del IV sec. a.C. si evince come queste ultime siano oramai l'espressione di una cultura prossima alla fine. Le tombe picene sono comunque caratterizzate dalla deposizione di una limitata quantità di oggetti importati, nonché di vasellame fittile e fibule che mostrano fogge simili a quelle della fase precedente. Alcuni corredi funerari piceni annoverano elementi di pura tradizione celtica (come le armi piegate) che possono documentare sia le sepolture dei Celti integrati in comunità picene quanto la diffusione di mode celtiche tra le popolazioni italiche. La documentazione di oggetti e costumi celtici in necropoli picene e, viceversa, di oggetti e costumi piceni in necropoli celtiche indica la profondità dei contatti e la reciprocità degli scambi.

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                                                                IL III SECOLO A.C.
                                                                
di Aurelio Dziewa Digeva




                      

 

   Il processo di romanizzazione dell'ager Picenus e dell'ager Praetutianus - che costituranno la futura regio V - iniziò durante il periodo dei primi trattati stipulati dalle popolazioni autoctone con Roma, e si completò con l'inquadramento di questi territori nello stato augusteo. Si può dire che questi contatti furono facilitati dal'atteggiamento ostile che i galli Senoni, abitanti bellicosi dell'ager Gallicus, tennero nei confronti della potenza romana.
   I romani stabilirono i primi contatti con le popolazioni indigene stanziate nell'area medioadriatica tra gli ultimi decenni del IV ed i primi del III secolo a.C. 
   Le frequenti rivolte dei Galli, seguite al sacco di Roma del 390 a.C., misero in guardia Roma e le altre popolazioni italiche, al punto che Roma si vide costretta a cambiare politica. Difatti, ad un precedente periodo segnato da un atteggiamento difensivo, seguì una fase "attiva", nella quale i Romani presero l'iniziativa e si insinuarono nelle terre controllate dai Galli Senoni. 
   La situazione divenne insostenibile quando i Galli riuscirono a compiere scorrerie nell'ager Romanus, in una zona posta a nord del fiume Tevere. Roma, temendo un nuovo attacco gallico, nel 299 a.C. strinse un'alleanza con i Picenti (Liv. X, 10, 12), come ci ricorda anche Plinio il Vecchio (Nat. Hist., III 18, 110), il quale afferma come, all'epoca del trattato, i Picenti fossero 360.000. Il trattato dovette essere del tutto simile a quello stipulato anni prima - e precisamente nel 310 a.C. - tra Roma e Camerates Umbri, l'attuale Camerino, che prevedeva un foedus aequum, ossia un trattato con eguali condizioni, e dunque paritario. Sulla base di altri trattati di questo periodo, si può ragionevolmente supporre come i Picenti si impegnassero a restare fedeli a Roma e forse a fornirle truppe di ausiliari. 
  Nè Livio, nè nessun altro autore latino riportano le motivazioni che spinsero i Picenti a legarsi a Roma, ma tali ragioni possono essere altrimenti intuibili: i Galli rappresentavano una grave minaccia - oltre che per Roma - anche per le popolazioni limitrofe; inoltre l'alleanza dei Pretuzi con i Sanniti, metteva difatto in pericolo l'integrità dei domini Piceni.  L'alleanza di Roma con i Picenti si dimostrò subito vantaggiosa per i Romani: come ci ricorda Livio (Liv. X 11, 7-8), i Picenti informarono per tempo i loro alleati dei preparativi di guerra dei Sanniti che nel 299 a. C. si erano coalizzati con Etruschi, Umbri, Sabini e Galli Senoni.
   Lo scontro tra le due coalizioni - i Romani e i suoi alleati da un parte; Sanniti, Galli, Umbri ed Etruschi dall'altra - ebbe luogo nell'agro Sentinate, nell'attuale territorio di Sassoferrato, nel 295 a.C. 
   La battaglia di Sentinum, nota anche come "la battaglia delle nazioni" per il gran numero di popoli che vi prese parte, consegnò di fatto la regione medioadriatica in mano ai Romani e gettò le basi per la futura conquista della penisola: infatti, l'offensiva guidata dal generale sannita Gellio Egnazio si trasformò in una vera disfatta, mentre i consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, guidarono le loro legioni ad un'insperata vittoria.
   Molti storici riportano per esteso  l'evento e ne sottolineano la portata epocale che ebbe per Roma: si conoscono, ad esempio, le legioni che presero parte allo scontro - la I, la III, la V e la VI - coadiuvate da uno squadrone di mille cavalieri campani; il numero dei caduti: un totale di 100.000 per Diodoro, mentre, secondo Livio, furono 25.000 per gli "italici" e 7000 nell'esercito di Mure, mentre 1700 in quello di Rulliano. Altresì noto, è l'episodio che vede protagonista il console Decio Mure, che si lascia deliberatamente uccidere, dopo essersi consacrato agli dei infernali - i Dei Mani - per il bene di Roma (per la battaglia di Sentino, vedere: Polyb. II 19, 5-6; Diod. XXI 6; Liv. X 27-30; Front. Strat. I 8, 3; Oros. III 21, 1-6). 
   Ma con la sconfitta patita a Sentinum, i Galli non furono ancora completamente domati: continuarono ad essere una spina nel fianco nel 284 a.C. quando ad Arretium - attuale Arezzo, in Toscana - sconfissero l'esercito romano e uccisero il console Lucio Cecilio. Allora il sostituto di Cecilio, il console suffectus Manio Curio Dentato, sbaragliò i Galli Senoni e penetrò nei loro territori, prendendone definitivamente possesso. Secondo Polibio, infatti, nello stesso anno fu fondata Sena Gallica, prima colonia maritima sull'Adriatico (tuttavia, oggi l'anno esatto di fondazione appare tutt'altro che certo).
   Così, nel volgere di pochi anni, la situazione geopolitica della regione medioadriatica cambiò radicalmente: la sottomissione dei Senoni a nord e quella dei Pretuzi a sud, inglobati nei territori dello stato romano, divenne un pericolo per i loro stessi alleati, i Picenti, ormai circondati dai domini di Roma. Tale situazione ebbe come conseguenza naturale la sollevazione dei Picenti nell'anno 269 a.C. con la città di Asculum a guidare la ribellione, in veste di caput gentis (Flor. I 14, 2). Nel volgere di appena due anni, gli insorti furono piegati dai Romani guidati dai consoli P. Sempronio Rufo e A. Claudio Russo, e nell'anno 268 a.C. si celebrò a Roma il triumphus de Peicentibus, come viene documentato sia dai Fasti triumphales Capitolini che dalle fonti antiche (Liv. Per. XV; Eutrop. II, 16; Front. Strat. I, 12, 3; Oros. IV 4, 5-7; Flor. I, 14).
   Con la sottomissione dei ribelli a Roma, il territorio dei Picenti fu confiscato ed entrò a far parte dell'ager Romanus, ad esclusione delle uniche città di Ancona ed Asculum, che mantennero lo stato di città foederatae; per quanto riguarda poi la popolazione, le fonti parlano di una vera deportazione nell'Italia meridionale, per la precisione in un'area del Salernitano che prese per l'appunto il nome di ager Picentinus. Tuttavia è da ritenere per certo che tale provvedimento non fu di entità tale da portare al definitivo estirpamento della popolazione indigena dal territorio conquistato: attestazioni di gentilizi terminanti in -enus nei documenti epigarafici successivi e un passo di Strabone, che descrive lo stanziamento dei Picenti sulle coste del Tirreno con il termine "mikròn apospasma" - ovvero un piccolo gruppo - (Strabo V, 4, 13), ne costituscono una significativa riprova. Le fonti antiche informano inoltre come alla restante parte della popolazione venne conferita la civitas sine suffragio, ma già pochi decenni dopo, nel 241 a.C., i Picenti acquisirono la civitas optimo iure con l'iscrizione nella tribù Velina. A presidio di questo territorio, entrato ormai a pieno diritto nei possessi di Roma, venne dedotta nel 264 a.C. la colonia di diritto latino di Firmum (Vell. I, 14, 8). Firmum svolse funzioni di consolidamento e di raccordo del sistema strategico in quest'area, posizionandosi al centro dei territori sottomessi; essa controllava e al contempo limitava l'autonomia della città di Asculum - più formale che reale - e di Ancona, situata a nord. 
   Un impulso notevole verso la romanizzazione del Piceno  fu compiuto nel 232 a.C. con la promulgazione del plebiscito flaminio de agro Gallico et Piceno viritim dividundo (Polyb. II, 21, 7-9; Cic. Brut. 14, 57; Val. Max. V, 4, 5; Cato, in Varro, de r.r. I, 2, 7). Questo provvedimento, fortemente voluto dal tribuno della plebe Caio Flaminio, aveva per materia la distribuzione delle terre confiscate ai vinti e la sua ridistribuzione al proletariato romano, che ricevette appezzamenti di terreno da coltivare mediante la formula dell'adsignatio viritana. Questo intervento comportò una capillare occupazione delle zone più fertili del Piceno settentrionale da parte di migliaia di cittadini romani, che si stanziarono di preferenza lungo le vallate fluviali, nelle zone comprese tra i fiumi Esino e Musone a nord e il Chienti a sud.
   Anche la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C. segnò un passo decisivo verso l'integrazione dell'area medioadriatica nello stato romano. La Flaminia, partendo da Roma e valicando gli Appennini, giungeva in Umbria, e da qui, attraverso l'ager Gallicus, sboccava sull'Adriatico per poi procedere verso Ariminum (Rimini). Grazie a questa direttrice viaria la Gallia Cisalpina potè essere raggiunta in tempi molto brevi e ciò costituì un fattore di grande importanza dal punto di vista strategico e militare, essendo una via agevole e facilmente percorribile preziosa per gli spostamenti delle truppe.
   Altro elemento che rivestì enorme imporatanza per il processo di romanizzazione del territorio, fu la razzionalizzazione e l'articolazione della Salaria, il cui tracciato vantava già origini antichissime, risalenti addirittura ad epoca protostorica. Nata come via naturale per il commercio del sale, estratto nelle saline alla foce del Tevere e commercializzato fino al Piceno, il tracciato fu regolamentato in seguito alla conquista romana del Piceno nel 269-268 a.C. per rispondere alle istanze strategico-militari degli eserciti romani. Infatti, alla deduzione della colonia di Firmum, si accompagnò la creazione di una efficace rete di collegamenti tra il territorio e Roma, di cui la Salaria risultò essere l'asse portante.
   Di poco successivo alla lex Flaminia e all'istituzione  di una viabilità stabile, fu il passaggio di Annibale (217 a.C.), il quale saccheggiò  e devastatò il territorio durante la seconda guerra punica (Liv. XXII, 9, 1-5). Polibio ricorda infatti come Annibale "attraversato il paese degli Umbri e quello dei Piceni giunse in dieci giorni nella zona prossima all'Adriatico, dopo essersi impadronito di molta preda, tanto che l'esercito non riusciva a condurre e a trasportare il bottino, e dopo aver massacrato nel suo passaggio una grande moltitudine di uomini. Infatti nella presa delle città, era stato dato anche quest'ordine, di uccidere chiunque avessero incontrato in età atta alle armi" (Polyb. III, 86, 8-11). Il passaggio dell'esercito annibalico dall'Umbria all'ager Picenus non è chiaro, ma dovette certamente avvenire attraverso  una delle principali aperture appenniniche, ovvero da un lato i Passi del Termine e del Cornello, che danno accesso alla valle del Potenza, dall'altro il Passo di Colfiorito, che immette direttamente nella valle del Chienti. Polibio inoltre, riporta menzione sulla permanenza dei Cartaginesi presso il mare Adriatico, dove, secondo l'autore, il generale cartaginese rinnovò le armature dei suoi soldati con le spoglie tolte ai Romani, e inviò navi a Cartagine per informare i concittadini circa le sue gesta (Polyb. III, 87, 1-5; 88, 1-2). Infine, la drammaticità della situazione è testimoniata anche dall'emissione occasionale negli anni 217-202 a.C. di monete da parte di Ancona per contribuire allo strordinario sforzo finanziario sostenuto da Roma.
   Terminata la guerra, il distretto Piceno accolse probabilmente come coloni viritani i veterani di Scipione.
 

                                                           

Fig.4 Tavola sinottica dei grandi eventi che hanno riguardato il Piceno nel III sec. a.C.




                                                                IL II SECOLO A. C.


   Un ulteriore passo verso la completa romanizzazione dell'area medioadriatica fu compiuto nel 184 a.C. quando furono dedotte le colonie di Pisaurum - nell'ager Gallicus, parte della futura regio VI - e di Potentia in territorio piceno. Non va dimenticato che tre anni prima, nel 187 a.C., furono ultimati i lavori per la realizzazione della via Aemilia, che congiungeva Ariminum a Placentia, e si  poneva dunque come il proseguimento naturale della via Flaminia. Ciò determinò un maggiore peso dell'area medioadriatica in quanto l'accresciuto flusso di merci e di genti comportò un'acquisizione d'importanza per l'intero settore. 
   La notizia della fondazione della colonia di Potentia, situata presso l'odierna Porto Recanati, è riportata da Livio (Liv. XXXIX, 44, 10), che cita anche i nomi dei tresviri incaricati della deduzione, mentre poco o nulla si sa riguardo il numero di coloni effettivamente dedotti. La colonia sorse in posizione strategica, e la sua fondazione, insieme a quella di Pisaurum, è da porsi in un più ampio progetto con il preciso obbiettivo di rendere più sicuro il versante adriatico in cui imperversava la pirateria illirica. Entrambe difatti dovettero svolgere un ruolo di supporto al porto di Ancona nel 178 a.C., durante la guerra contro Genzio, il re degli Illiri; nel corso della guerra Ancona divenne la base logistica delle operazioni condotte dalla flotta romana, guidata dai duumviri navali Caius Furius e Lucius Cornelius Dolabella (Liv. XLI, 1, 2). 
   Dopo soli dieci anni dalla fondazione, nel 174 a.C., la colonia di Potentia fu interessata da un importante progetto di sistemazione urbanistica, finalizzato alla realizzazione di strutture di pubblica utilità, ad opera del censore Quintus Fulvius Flaccus, fratello di uno dei tresviri (Liv. XLI, 27, 1; 10-13). Tale attività è inquadrabile in un più vasto quadro edilizio che interessò anche altri centri della penisola; inoltre dal testo dello storico latino, apprendiamo come tutte le realizzazioni siano state portate a compimento grazie alle finanze municipali delle comunità interessate, in quanto ancora in questa fase le colonie non potevano disporre liberamente dei propri soldi senza l'autorizzazione dei censori. Alcuni studiosi hanno visto dietro il consenso accordato da Flacco, la possibilità che il censore o la sua fazione politica, avessero avuto interessi particolari in questo territorio, quali ad esempio possedimenti terrieri.
   Lo sforzo economico di Roma, volto alla realizzazione di opere di miglioria a carattere pubblico, è testimoniato anche dal caso di Auximum: infatti sempre nel 174 a.C., il centro, che è da considerarsi in questo periodo come un semplice oppidum, fu munito di mura e furono realizzate le tabernae intorno al forum (Liv. XLI, 27, 10). Lo sforzo finanziario sostenuto nella regione medioadriatica e in genere in tutta la penisola, fu reso possibile grazie ai bottini delle campagne imperialistiche che Roma aveva condotto con successo, e all'apertura dei mercati orientali. Anche gli abitanti del Piceno in questi anni contribuirono alle guerre di espansione in Oriente, come ci dice lo stesso Livio, il quale annovera, nel corso della terza guerra macedonica (171 - 168 a.C.), una guarnigione, di cui una delle tre coorti era composta da Fermani (Liv. XLIV, 40, 6).
   Nel 157 a.C. Auximum fu innalzata a colonia maritima, come ricorda Velleio Patercolo (I 15, 3); la fondazione della città, posta in posizione strategica a presidio dell'intero Piceno settentrionale, portò a conclusione il progetto iniziato nel 284 a.C. con la deduzione di Sena Gallica, finalizzato al controllo politico-militare dell'intero versante medio-adriatico. 
   Ma negli stessi anni, alla creazione di opere di decoro e di pubblica utilità, non fecero seguito altrettanti interventi finalizzati a fronteggiare le difficoltà in cui si trovarono a vivere i coloni romani insediatisi nel territorio a seguito della Lex Flaminia: molti di loro infatti patirono le conseguenze dovute alle scorrerie degli eserciti annibalici che devastarono l'intero territorio. A questo evento di natura straordinaria, se ne aggiunsero altri, in particolare le profonde trasformazioni nell'organizzazione della produzione agricola, che furono alla base della perdita delle terre da parte dei piccoli e medi proprietari terrieri.

IL VUOTO TEMPORALE SULLE VICENDE CHE RIGUARDARONO IL PICENO TRA IL BRANO 
PRECEDENTE E QUELLO SUCCESSIVO VERRA'COLMATO QUANTO PRIMA  
  

 

 IL I SEC. A.C. - LA GUERRA CIVILE TRA CESARE E POMPEO

   L'evento che diede avvio alle ostilità fu il passaggio del fiume Rubicone, coincidente con il confine pomeriale, che segnava la linea sacra oltre la quale un generale non poteva esercitare il suo potere militare; tale passaggio venne compiuto nella notte tra l'11 e il 12 gennaio del 49 a.C. da Cesare e dalle truppe della sola legio XIII, dando così inizio alla guerra civile.
   Nello stesso giorno Cesare occupò Ariminum (Rimini), la prima città oltre il confine della Gallia Cisalpina, e mandò il suo legato Quinto Cassio Longino con tre coorti ad occupare Pisaurum (Pesaro), Fanum (Fano) e Ancona, mentre diede ordine ad Antonio di portarsi presso Arretium (Arezzo) con altre cinque coorti e presidiarla. Così le città della costa adriatica fino ad Ancona passarono in mano a Cesare, ciascuna presidiata da una coorte; in questa prima fase le operazioni si svolsero senza necessità di scontri armati; anzi il fatto che Cesare fosse entrato in possesso di ogni città con una sola coorte stava ad indicare che l'occupazione era avvenuta senza incontrare alcuna resistenza. 
   Il piano, abilmente messo in atto dal generale romano, mirava ad impedire al governo di Roma ogni forma di collegamento con la pianura padana e a minacciare Roma attraverso il controllo di due vie fondamentali, la Flaminia sul versante adriatico e la Cassia su quello tirrenico.
   Pochi giorni dopo fu la volta di Iguvium (Gubbio), presidio tenuto dal pompeiano Quinto Minucio Termo con cinque coorti; fu mandato Caio Scribonio Curione con le tre coorti che erano state lasciate ad Ariminum e Pisaurum. Non ci fu alcuno scontro: Termo, saputo dell'arrivo di Curione e diffidando degli abitanti del municipio, aveva iniziato il ripiegamento che però si risolse malamente, con i soldati che disertarono e tornarono alle proprie case. Con la presa della conca intermontana di Gubbio il triumviro si protesse le spalle da eventuali pericoli provenienti da nord - ovvero dal settore umbro settentrionale - e consolidò il controllo sulla Flaminia; con l'occupazione di Arretium, Iguvium e Ancona tutte le strade che portavano dal centronord a Roma si potevano dire bloccate.
   L'acquisto di posizioni chiave da parte di Cesare ebbe effetti immediati: come ci racconta lo stesso Cicerone (Cic. ad Att. IX 10) già il 18 gennaio, al sopraggiungere delle prime notizie, a Roma si diffuse il terrore a cui seguì un triste esodo da parte di tutti i maggiorenti dell'Urbe, i quali raggiunsero Pompeo, partito il giorno prima alla volta di Capua. Anche i consoli abbandonarono Roma: per primo partì Gaio Marcello, seguito poi dal collega Lentulo, che si era attardato nel tentativo di trasferire il tesoro. 
   Poco prima, tra il 17 e il 18 gennaio, Cesare aveva ricevuto ad Ariminum i due ambasciatori inviati da Pompeo, Lucio Cesare, suo cugino, e Lucio Roscio Fabato: ai due pompeiani Cesare chiese di tornare a Roma affinché venissero esposte le sue richieste; i due tuttavia quando furono di ritorno con le commissioni del triumviro, trovarono la città deserta: solo il 23 gennaio a Teanum Sidicinum (Teano) ebbero modo di riferire a Pompeo.


Fig.5 Le prime fasi dell'avanzata cesariana che seguirono il passaggio del Rubicone
 
   Tra il 1 e il 3 di febbraio prese avvio l'avanzata nel Piceno, considerata da tutti la roccaforte dei Pompeiani; questa volta Cesare si diresse in direzione di Auximum.
   Quando il generale romano penetrò nella regione, trovò che nel Piceno e nei territori ad esso contermini era già in atto una massiccia opera di reclutamento e  di difesa: nella città di Auximum Attio Varo approntava leve (Caes., b.c. I, 12, 3) e presidiava con le sue coorti il centro romano; Caio Lucilio Irro teneva occupata Camerinum, città che sorgeva sui contrafforti appenninici tra il Piceno e l'Umbria e che in epoca augustea farà parte della regio VI, con sei coorti (Caes., b.c. I, 15, 5); Publio Cornelio Lentulo Spintere difendeva Asculum con ben dieci coorti al suo seguito ( Caes., b.c. I, 15, 3); il centro fortificato di Cingulum era asservito a Tito Labieno, personaggio che da poco avevo disertato le file di Cesare per passare a quelle di Pompeo.  
   In questo modo gli avversari di Cesare avevano cercato di erigere una rete militare che protegesse Roma e la rendesse sicura dall'avanzata del triumviro; ma il Piceno, ritenuto per questo un luogo di estrema importanza, sembrò sin da subito opporre una blanda resistenza. Eppure nel 63 a.C. il Piceno aveva avuto un ruolo chiave nella repressione del moto catilinario, e ancora prima le forti clientele locali di Pompeo avevano consegnato i centri della regione nelle mani di Silla; dunque nella visione degli optimates il Piceno era ancora il simbolo del potere conservatore.
   D'altro canto nella regione doveva essere presente anche una cospicua classe di piccoli e umili lavoratori, soggiogati dai ricchi possidenti terrieri, e masse affamate di liberi braccianti, i quali appoggiavano con entusiasmo l'avanzata del generale ribelle. Fu proprio la fazione filo-cesariana a determinare la caduta dei centri piceni nelle mani di Cesare: questo avvenne anche nel caso Auximum. 
   In questa località, all'avvicinarsi delle truppe di Cesare, il luogotenente di Pompeo venne invitato dagli stessi decurioni cittadini a lasciare la città (Caes., b.c. I, 13); Varo fuggì, ma entarto in contatto con l'avanguardia nemica, venne abbandonato dai suoi soldati, i quali passarono dalla parte avversa. A Cesare non rimase altro che prenedere possesso della città (Caes., b.c. I, 15, 1).     

   Auximum era il più importante caposaldo della potenziale linea di difesa che aveva origine ad oriente con i rilievi  cingolani, continuava ad ovest con le colline di Filottrano e di Osimo, e finiva con l'altura di Casteldidardo che poggiava nella piana di foce del Musone-Aspio; inoltre Auximum sorgeva su di un'ampia collina sulla cui sommità era posto l'abitato fortificato, chiuso dalla possente cinta urbica. Non è dato sapere con quante coorti Attio Varo tenesse la città, nonostante Cesare si dilunghi notevolmente sugli avvenimenti di Osimo; quel che è certo è che la ricchezza della narrazione sottolinea quanto la città fosse importante nella gerarchia militare dei siti.  
   Una volta presa Auximum, anche le restanti città del Piceno non opposero resistenza: già il 10 Febbraio dello stesso anno l'ultima roccaforte della regione, ovvero la città di Asculum, riultava nelle mani del generale romano (Caes., b.c. I, 15, 3). Qui, all'arrivo di Cesare, il pompeiano Lentulo Spintere, il quale teneva Asculum con ben dieci coorti, tenta la fuga portandosi con sé le coorti, ma viene abbandonato dalla maggior parte dei soldati e rimasto in marcia solo con pochi uomini, verrà congedato da Vibullio Rufo. Così in soli dieci giorni - tra il 1° e il 10 febbbario del 49 a.C. - il Picenum si potè dire piegato all'avanzata cesariana. 
   Conquistata la regione, Cesare potè portarsi rapidamente a sud, nel territorio dei Peligni e, dopo alcune tappe, mettere sotto assedio la città di Corfinium. A difesa della città si trovava Lucio Domizio Enobarbo, il quale chiese immediatamente rinforzi a Pompeo. Il trimviro negò il suo aiuto e invitò Domizio alla ritirata, ma questi, dopo aver indugiato eccessivamente, fiducioso nell'appoggio dei suoi uomini, fu costretto alla fine ad accettare la resa. Graziato da Cesare, morirà l'anno seguente nella battaglia di Farsalo.


Fig.6 Ritratto in età matura di Gnaeus Pompeius Magnus, oggi al Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, e busto di Gaius Iulius Caesar cosiddetto "Farnese" al Museo Archeologico Nazionale di Napoli 

   Dopo le vicende che riguardarono il Piceno e la regione medioadriatica, da lì a poco la guerra civile si estenderà anche al resto della penisola italica e ben oltre i suoi confini, decretando la vittoria definitiva di Cesare e la sconfitta dei suoi avversari, mentre Pompeo troverà la morte in Egitto il 28 settembre del 48 a.C., vittima di un tradimento da parte dei consiglieri del re Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra VII.  


ORIGINE DEL CRISTIANESIMO NEL PICENO

   Secondo gli studiosi il cristianesimo si diffuse nelle Marche attraverso due vie preferenziali, una terrestre lungo le strade consolari, ed una marittima attraverso i porti e gli approdi minori dislocati lungo la costa. Per quanto riguarda l'itinerario terrestre, un canale d'ingresso nella regione fu senz'altro offerto dalla Flaminia per l'area a nord dell'Esino, mentre la via Salaria permetteva al cristianesimo di diffondersi nel Piceno, territorio posto subito a sud dell'Esino. Tramite queste due direttrici viarie e le loro diramazioni, il cristianesimo da Roma penetrò nelle Marche: ciò è confermato infatti dai più antichi culti cristiani, dislocati lungo i percorsi sia della Salaria sia della Flaminia.
   Un secondo canale d'ingresso fu invece offerto dalla rete di porti ed approdi costieri, primo tra tutti il porto di Ancona, aperto al mondo orientale, da cui probabilmente giunsero i primi influssi cristiani. E' paradigmatico a questo proposito l'episodio narrato da Sant'Agostino, il quale racconta di un navigante giudeo-cristiano che, avendo assistito al martirio per lapidazione di Santo Stefano a Gerusalemme, avrebbe portato ad Ancona la pietra con cui il santo fu colpito al gomito. Sebbene l'episodio di Sant'Agostino manchi di attendibilità storica, tuttavia esso mette in luce l'esistenza già in antico di contatti tra il cristianesimo orientale e quello locale.    
   Nel Piceno, così come nel resto d'Italia, ogni comunità in principio faceva capo per le funzioni spirituali a più di un episcopo - inizialmente detto anche presbitero -, dando luogo ad un organo collegiale di guida. Accanto agli episcopi/presbiteri che si occupavano delle funzioni liturgiche, esistevano gruppi di diaconi, i quali si occupavano della vita materiale delle comunità e degli uffici assistenziali. Successivamente, alla collegialità originaria, si sostituì gradualmente il cosiddetto "episcopato monarchico", che vedeva a capo di ciascuna comunità un solo vescovo o episcopo: tale organizzazione ebbe origine in Siria e Asia Minore, per poi diffondersi al resto della cristianità.
   Purtroppo per i primi secoli le fonti sulle primitive comunità cristiane nel Piceno sono rare o quasi inesistenti: tra le più antiche ricordiamo qui l'epigrafe di Helvia Tertia da Fermo, datata tra il 250 e il 330 d. C. Per quanto riguarda invece l'esistenza di sedi vescovili nel Piceno, la prima testimonianza certa la si ricava dall'Apologia contra Arianos composta da Sant'Anastasio, il quale, elencando gli oltre 300 vescovi che presero parte al Concilio di Sardica del 342-343, menziona accanto a quelli delle varie regioni Italia, anche quelli del Piceno. Accenna ad un vescovo del Piceno anche San Girolamo nel Dialogus adversus Luciferianos, dicendo che nel corso del Concilio di Rimini del 359 un certo Claudio, vescovo della provincia del Piceno, difese l'ortodossia cattolica contro l'arianesimo. Al principio del V sec. d. C. si ha notizia anche di Faustino, vescovo di Potentia (odierna Porto Recanti), il quale svolse l'attività di legato in Africa dapprima per conto di papa Zosimo e poi di papa Celestino I. Di poco successiva è l'attività svolta dal vescovo Lucrezio di Ascoli Piceno, il quale nel 449 d. C. fu mandato da papa Leone Magno a Costantinopoli per trattare la questione dei vescovi  monofisiti, mentre più tardi - nel 451 d. C. - ebbe l'incarico di rappresentare il pontefice nel Concilio di Calcedonia.

 
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